Collettivo Kun

Il Collettivo Kun: si può anche non fare

Un collettivo di danza contemporanea a Como. Un sussulto di stupore, perplessità e infine la resa di fronte al vero: il Collettivo Kun è un soggetto sempre più incisivo nel contesto culturale e performativo della nostra Brianza comasca. Questo è emerso dalla serie di riflessioni con Francesca, Roberta e Riccardo sotto la luce psichedelica della loro postazione video.

Il dispiacere causato dalla chiusura nel 2018 della rassegna piemontese Valdapozzo Spettacolare, alla quale i tre componenti hanno collaborato in svariate occasioni, crea in loro il desiderio di unirsi definitivamente in un collettivo e realizzare qualcosa da donare a questi luoghi. Nasce così il sodalizio tra le danzatrici e coreografe Francesca Cervellino (comasca), Roberta Goeta e il musicista-drammaturgo Riccardo Mini (milanesi trasferitisi in Brianza una decina di anni fa).

Nonostante provengano da background differenti (storia del teatro inglese, drammaturgia, musica) è l’interesse per la filosofia asiatica e in particolare quella cinese ad accomunarli. Tutto il processo di co-creazione, come racconta Francesca, deriva dalla consultazione dell’oracolo I Ching, testo sapienziale cinese in cui troviamo l’esagramma kun, “il Ricettivo”, da cui il loro nome. Questo indica un approccio artistico incentrato sul concetto di ascolto e ricettività, intesa come capacità di lasciarsi guidare da ciò che arriva, senza resistenze, accogliendo e trasformando creativamente ciò che si presenta. È la qualità del ricevere rispetto a quella del dare, è l’elemento femminile, è lo yin, l’aspetto lunare.
Nella scelta dei loro progetti si sono affidati interamente all’oracolo: nello specifico, attraverso il lancio di monete si ottengono degli esagrammi, sei linee che corrispondono a una determinata immagine archetipica su cui soffermarsi e ragionare. Successivamente, tutto prende forma e significato da sé. Roberta precisa inoltre che il delegare il ruolo di guida a un’entità “altra” ha permesso di co-operare in modo totalmente democratico ed equo, da qui la scelta di definirsi un collettivo.

Con questa impronta, è stato realizzato il loro primo spettacolo Crossing – Attraversare la Grande Acqua (2018). Esso tratta i vari processi di trasformazione a cui tutti gli esseri viventi sono soggetti e assume una sfumatura diversa nello spettatore a seconda del luogo e soprattutto del tempo in cui viene rappresentato: la prima messa in scena, nel 2018 durante l’ultima edizione di Valdapozzo Spettacolare, sembrava manifestare ciò che avviene quando qualcosa muore per dare spazio a qualcosa di nuovo. Nel 2019 è stato riproposto a Barcellona, alla Lleialtat Santsenca (Can Batllò), promosso dall’Associazione Progetto Sostre che opera a sostegno dei senza fissa dimora, di fronte a un pubblico di volontari e di senzatetto. «Sembrava uno spettacolo su cosa succede quando si perdono le sicurezze, quando si varca la soglia della propria casa verso un mondo sconosciuto, dove l’unica possibilità di sopravvivenza è nell’incontro con l’altro» descrive Riccardo. L’ultima replica, a settembre 2020 al Balosso Festival presso il Teatro Sociale di Como, durante la breve illusione di libertà dopo i mesi di reclusione, ha acquisito invece un significato di rinascita.
Proprio questa capacità di non legare e non negare allo stesso tempo il contenuto dello spettacolo a nessun significato e messaggio specifico è la forza del Collettivo Kun. Non vi è intellettualizzazione: la performance funge da contenitore delle esperienze del singolo individuo.

Crossing – Attraversare la Grande Acqua (2018), Balosso Festival, Sala Bianca Teatro Sociale di Como (2020), Dario Cavadini
Crossing – Attraversare la Grande Acqua (2018), Lleialtat Santsenca (Can Batllò), Barcellona (2019), Paolo Lazzari

Entrambe allieve – seppur in momenti diversi – della performer e coreografa Cinzia Delorenzi, Roberta e Francesca si sono approcciate alla Danza Sensibile, che tra le tante tematiche in gioco tratta anche l’abbandonarsi ai ritmi della natura. Inoltre, hanno studiato nel corso degli anni la contact improvisation (anni ’70, New York, Steve Paxton, per intenderci). Artisti di riferimento sono sicuramente quelli che appartengono alla scuola statunitense, come Trisha Brown, Simone Forti e ancora il teatro-danza tedesco, quindi Pina Bausch e Sasha Waltz. Un ruolo fondamentale nella poetica del Collettivo Kun ha infatti l’improvvisazione, intesa come istintualità, che riprende il linguaggio Gaga della compagnia israeliana Batsheva: da una parte, le performance del collettivo hanno una struttura interna ben definita, ma dall’altra vengono lasciati degli spazi dove «accade quello che deve accadere» come descrive Roberta, dove è importante l’hic et nunc. Altri elementi identificativi per il gruppo sono sicuramente l’essenzialità formale e un’estetica molto minimalista, che poggia su una totale assenza di scenografia e crea così un’immagine molto pulita.
Il tutto viene scandito dalla musica di Riccardo (drammaturgo teatrale di formazione) che plasma come un demiurgo una scenografia sonora ben precisa. Musica come composizione e come capacità di creare un ambiente, un mood, una vera e propria drammaturgia. Riccardo si interroga su cosa la musica possa diventare nel momento in cui si inserisce in un contesto teatrale e assume un ruolo attoriale, quando insieme al movimento il senso viene modellato. La musica diventa il terzo danzatore: nasce, si sviluppa e termina contemporaneamente alla danza. È a partire da conoscenze assimilate, come il concetto di paesaggio sonoro di Brian Eno, l’idea che si possa creare musica attraverso l’esercizio della composizione di Frank Zappa e la concezione di essa come spazio da abitare dei Pink Floyd, che Riccardo compone musiche originali per il Collettivo.

Oltre alla danza e alla musica un altro elemento importante, che cattura il “qui e ora”, è la fotografia. Da grandi appassionati, al Collettivo Kun non interessa l’aspetto fotografico dal punto di vista meramente estetico-visivo. I performer sono al contrario attratti dalla capacità che determinate immagini hanno di attivare risposte diverse tra loro. Anche se, in realtà, è difficile non soffermarsi anche sulla potenza evocativa di fotografie come quelle, per esempio, di Davide Bordogna a Villa del Grumello per il progetto Tra Terra e Cielo (2019). La scenografia prediletta è l’ambiente naturale, luogo dedicato al movement research e alla sperimentazione delle due danzatrici – e del fotografo – che secondo Francesca diventa vero e proprio teatro di un’esperienza performativa. È una modalità creativa che risulta loro molto semplice, che permette di esplorare il proprio corpo come parte della natura, generando così una stretta sinergia tra danza, ambiente e fotografia – come si evince anche dalle foto di Juri Ronzoni o di Dario Cavadini.
La fotografia e i testi sono al centro della loro comunicazione social: poche parole, chiare, no finte pose intellettuali, zero smania di apparire, solo grande onestà. Come nelle loro mini-biografie, così negli inviti diretti ai loro seguaci durante il primissimo periodo di quarantena: danzare nella natura o in un luogo confortevole «ma ad una condizione: no telefoni, dirette online o filmati. Solo noi, il nostro corpo e le nostre emozioni».

Essere un collettivo di danza contemporanea in Italia, rispetto ad altri paesi come la Francia o il Belgio per esempio, non è semplice. Esserlo in provincia sembra una missione praticamente impossibile. Come raccontano Roberta e Riccardo, la realtà comasca è molto differente da quella milanese: il loro è un tipo di linguaggio ancora poco conosciuto, poco divulgato e che fa fatica a trovare i suoi spazi; l’educazione alle discipline della danza e della performance è ancora molto rara. Rispetto a Milano, in area brianzola l’accesso e la distribuzione sono molto più complessi: manca una rete di compagnie e il numero di coloro che praticano arti performative nella nostra zona è davvero misero.
Francesca, comasca, ammette sinceramente la «grande difficoltà e il senso di solitudine che vivono gli artisti nati e cresciuti in questa città». Per tantissimi anni ha lavorato prevalentemente come insegnante, ma in parallelo ha sempre portato avanti progetti in solitaria o collaborando con altri performer, ma non ha mai trovato delle persone con cui si sentisse perfettamente in linea, fino al Collettivo Kun. Vi era e vi è ancora l’esigenza di creare qualcosa di personale, nel e per il proprio territorio, non solo in spazi convenzionali come il teatro, ma specialmente in spazi aperti, naturali o urbani. Ed è proprio il territorio la chiave della loro missione: cercare di sviluppare un rapporto con esso, con le realtà vicine – come è accaduto con Villa del Grumello o con la galleria d’arte G/ART/EN – per conoscerle, promuoversi e individuare un pubblico, che sia recettivo e coinvolto nei loro progetti.

Roberta in Tra Terra e Cielo, Villa del Grumello, Davide Bordogna (2019)

Uno degli aspetti positivi del lockdown, spiega Roberta, è l’aver sentito in tutto l’ambiente dello spettacolo il fermento, la necessità di imparare a dialogare e far fronte comune per attirare lo sguardo sul proprio lavoro. E il lavoro è anche nell’intenzione di TUC (Teatri Uniti Como e Provincia), per cui tutte le realtà teatrali tentano di fare rete e stabilire un dialogo con il Comune e la Regione. Il Collettivo Kun, oltre a farne parte, ha collaborato al progetto proposto da TeatroGruppo Popolare Le Troiane, tratto dalla tragedia di Euripide, spettacolo ideato per la fine di dicembre, riconvertito in video-racconto in streaming del backstage e riprogrammato per maggio 2021.

La nostra chiacchierata termina riflettendo su come siano cambiate e come si evolveranno la danza e la performance in quest’era contact improvisation unfriendly. Francesca afferma che l’esigenza di contatto è talmente insita nell’essere umano, che le persone – non appena sarà concesso – supereranno la paura e cercheranno l’altro, in barba al distanziamento sociale. Roberta aggiunge che ci sarà bisogno di chi conduca verso un’esperienza diversa, anche a livello di una concezione differente del proprio corpo e del tempo. «La mancanza di qualcosa dà sempre la possibilità di esplorare altre forme». Ci sarà un vissuto, una sensibilità diversa nel farlo e nuove modalità di fruizione ibride. Riccardo precisa che sicuramente il fatto di provenire da diversi percorsi, li ha resi molto aperti a sperimentare nuove forme di luoghi e di comunicazione, a nuove opportunità.
Il segno distintivo del Collettivo Kun è quello di essere disposti a lasciarsi guidare da quello che hanno, che sia uno spazio o un linguaggio. Il loro motto è “si può anche non fare”, coniato dalla figlia di Roberta e Riccardo, Maddalena. Non bisogna però fraintenderlo come esortazione alla passività, anzi. Ripropongono, infatti, il concetto taoista del lasciarsi guidare da ciò che avviene e il valore dell’essenzialità, caro anche allo shintoismo. Vogliono perseguire solo ciò che credono sia importante, senza mai forzare nessun tipo di processo. Seguendo il cardine di molte filosofie (cosiddette) orientali, si muovono quando possono e vogliono, senza la smania di produrre. Seguire il ritmo naturale delle cose, cambiarle quando è davvero importante.
Mia madre è solita citarmi – quasi allo sfinimento – Thomas More:

«Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare,
che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare,
che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere».

Il Collettivo Kun ha sicuramente questo tipo d’intelligenza. D’altronde, “si può anche non fare” è un concetto che, credo, dovremmo veramente fare nostro. Nel dubbio, possiamo sempre danzare.

di Julija Kajurov
fotografie gentilmente concesse dal Collettivo Kun

  • © Dario Cavadini

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Nata in una piccola capitale europea, è destinata a crescere in Brianza. Laureatasi in Beni Culturali con una tesi sull’arte giapponese del secolo scorso, si riversa nei canali di Venezia, dove sta concludendo la Magistrale in Economia e Gestione dell’Arte, scrivendo una tesi in Storia della Danza e della Performance. Indecisa se tornare a Mosca o meno, osserva con curiosità il territorio che l’ha formata e attende la prossima mossa. In un’altra vita inventrice del teletrasporto, antropologa o papavero.
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