Il cantastorie

Incontro Marco Trapani, frontman dei Blunted, un mercoledì sera in una birreria che frequenta con regolarità. L’ho attirato qui con l’intento di fargli rilasciare un’intervista riguardo l’album inciso con la sua band, ma Marco è un buon conversatore, più di quanto io sia un intervistatore preparato. La storia che mi racconta, quindi, emerge dalle rovine di un’intervista fallita, ma anche da una conversazione assolutamente ben riuscita, di quelle che si hanno con chi è giustamente orgoglioso e sinceramente innamorato di quello di cui parla.

Il principio di questa storia è l’innata passione di Marco per le storie, manifesta già ai tempi del liceo, quando la coltiva consumando prodotti a elevato tasso di narratività: antologie, serie, concept album, puntate ed episodi come se non ci fosse un domani. I suoi compagni d’avventura sono Nicolò Seveso e Christian Paciaroni, grandi amici che affiancano il nostro eroe (rispettivamente con un paio di bacchette e con un basso) per dargli l’opportunità che cercava da tempo di forgiare nella musica il mondo creativo che aveva in sé; correva l’anno 2015. Già l’anno successivo il trio inizia a lavorare a un disco, Inside, che vede la luce nelle prime settimane del 2019 e che per questo Marco mi confessa sentire già parzialmente “lontano” dal suo orizzonte creativo attuale (sì, come vedremo a breve è una persona che sa valorizzare il buono nel cambiamento e il bello nel rinnovamento). Il cantante e chitarrista lavora al concept e ai testi, e alla musica insieme ai due amici: insieme si avviano così ad affrontare innumerevoli peripezie.

Marco Trapani © Riccardo Pontiggia

Fra le virtù cui i tre hanno fatto appello, Marco non manca di menzionare l’impegno profuso nella formativa (a tratti ardua) campagna di crowdfunding e le doti improvvisatorie con le quali hanno saputo ideare e girare un video promozionale per la stessa, necessarie anche per costruire la scenografia del videoclip di Vault, seconda traccia dell’album (no, non vi rivelerò questo segreto di regia e ingegneria, altrimenti dove starebbe la magia?); non ultimi i sacrifici e la fatica nel breve periodo (troppo breve, secondo il musicista) delle registrazioni in studio. Peripezie, si diceva, che hanno portato Marco ad affermare che «è finito il tempo dei poeti maledetti, oggi è il tempo dei grandi professionisti», ovvero «degli artisti che ci mettono la faccia», di quelli che quando serve se la sanno cavare insomma, che sanno faticare prima di celebrare, che sanno che le decisioni vanno prese, e prima è meglio è: «le idee muoiono se non vengono realizzate». Ma in tutto questo Marco mi dice anche di sentirsi fortunato di avere accanto anime gentili e risolute, grazie alle quali tutto è un pochino più facile e molto più divertente.

È nel momento in cui finalmente entriamo nel vivo della conversazione riguardo al “mondo Inside” però, che Marco rivela davvero quanto tenga a quel progetto e più in generale a quello che lui chiama il “vivere della propria arte”. «È il mio achievement», mi dice; poi specifica che con quelle parole non intende necessariamente l’avere un reddito derivante dall’attività musicale (certo, anche quello non è male), ma piuttosto l’essere una parte importante, una sorta di avanguardia, per una community di persone più o meno variegata, e solo l’artista in grado di mettersi in discussione, di cambiare, di rinnovarsi può ottenere questo. In effetti, nel parlare dei suoi idoli musicali, Marco si dimostra alquanto eclettico: mi parla di una band contemporanea americana, i Coheed and Cambria, il cui progetto corrisponde sostanzialmente alla colonna sonora di un fumetto realizzato dal cantante del gruppo; mi parla, soprattutto, di Richard Wagner, uno dei pochi allora a scrivere interamente le proprie opere, senza affidarsi a librettisti per la parte testuale («lui sì che faceva concept,cazzo!», credo siano le parole che ha usato).

Marco Trapani © Riccardo Pontiggia

Quando invece passo a chiedere, con ingenua leggerezza, di quale genere musicale si possa parlare riguardo all’album, Marco Trapani mi sorprende fornendo una risposta dalla prospettiva quasi antropologica. Nel giro di pochi minuti mi porta a spasso per la storia della musica: mi parla di come, secondo alcuni studi, l’apparato fonatorio dell’Homo sapiens si sia evoluto più per cantare che per parlare; di come, in un certo senso, l’evoluzione della musica sia morta nel tardo ‘800; di come prima di quella morte la musica fosse un fenomeno estremamente elitario, mentre più avanti ha saputo diventare “di tutti”, facendo nascere in epoche diverse generi importantissimi legati a contesti sociali particolari (rock, punk, rap, trap). Conclude, quindi, dicendo che non può rispondere alla mia domanda: «oggi chi dice di rappresentare alcuni generi in realtà sta facendo delle “rievocazioni storiche” in costume. Ho cercato di fare qualcosa di nuovo, ma un genere diventa tale solo quando inizia a essere frequentato anche da altri; se dobbiamo etichettare diremmo alternative rock, ma alternative rock non significa nulla».

Marco è anche desideroso di illustrarmi nel dettaglio la struttura narrativa alla quale ha lavorato: quattordici tracce di cui un intro e un outro musicali che dialogano fra loro, mentre le dodici canzoni che intercorrono sono idealmente suddivisibili in quattro “episodi”. I linguaggi che compongono l’opera, musica e parole, si fanno a mano a mano più astratti nel far procedere la storia di un individuo (l’autore/ascoltatore) e della sua chiusura riflessiva nella propria interiorità, che progressivamente si schiude e cerca un’interazione fruttuosa col mondo esterno e con gli altri. Quando però, spinto da personale curiosità filologica, chiedo quale interpretazione complessiva abbia questo racconto musicato per il suo autore, mi risponde che l’interpretazione va sempre cercata, che «un autore che vuole un solo significato per la propria opera è un dittatore»; e tanti saluti alla mia cara filologia.

Una delle risposte che più rimangono impresse nella mia memoria di questa conversazione è quella, apparentemente semplice, che viene fornita alla domanda: «come mai l’inglese?». Marco mi dice: «è un mezzo, come tutti gli altri. Abbiamo scelto e tutte le scelte che facciamo sono frutto della nostra esperienza: eventi, persone e anche i luoghi che abitiamo; tutto questo ci influenza ovviamente». Da questo come da altri scambi di batture fra noi, capisco che la storia di perseveranza e passione di Marco è ancora lunga e non può trovare la sua conclusione in questa pur articolata conversazione. Ora però che l’avventura di Inside può dirsi quasi compiuta, il frontman manifesta la sua voglia di completarla con una serie di live nei locali del territorio. Perché, dalla storia universale della musica fino alla Brianza dei Blunted, come Marco mi fa capire dai primi istanti del nostro incontro, la difficoltà del fare musica sta nel continuare a farla: «quelli che mollano sono tantissimi, ma non sono pochissimi nemmeno quelli che raggiungono il successo “da vecchi” (come Wagner)».

Marco Trapani © Riccardo Pontiggia

di Igor Agnesi
Ritratti di Riccardo Pontiggia

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Laureato in lettere nonché neolaureato in editoria e comunicazione all’Università degli Studi di Milano. Dal 2018 scrive, corregge e riscrive per La Beula. Karateka per caso (almeno all’inizio); amante discreto di letteratura e videogiochi. In un’altra vita astronauta e paleontologo. Igor Agnesi è nato a Erba nel 1994 e da allora vive nella verde Anzano del Parco - nella profonda provincia di Como - ma ha visto anche altre parti del mondo e vorrebbe vederne altre ancora. E altri mondi, magari.
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