Lo scultore

Passare il tempo a chiacchierare con Mattia Barone sarebbe questione semplice e piacevole anche per chi, a differenza mia, lo incontrasse per la prima volta. Quando ci diamo appuntamento per parlare dei suoi ultimi lavori, infatti, Mattia parla con la propria consueta passione, riuscendo a rendere calorosa persino una conversazione via Skype – iniziata con toni professionali alle nove di sera e terminata solo pochi minuti prima dell’una blaterando di sogni, ambizioni e ingiustizie.

Nato e cresciuto a Cantù, Mattia vive a Carrara da settembre 2019, dove si è iscritto all’Accademia di Belle Arti, spinto dallo stesso amore per la scultura che l’ha portato a diplomarsi prima all’istituto d’arte Fausto Melotti di Cantù e poi all’Accademia di Brera a Milano. Appena si apre la videochiamata inquadra il suo appartamento per mostrarmi come la sua camera si sia in poco tempo trasformata in un caotico atelier. Qui la misera percentuale di spazio riservato alla vita domestica rispecchia il ruolo da protagonista che il suo lavoro gioca nelle sue giornate.

Da quando la scultura è entrata nella sua vita, infatti, è parecchio difficile separare Mattia dalla sua identità di artista, così come è difficile trovarlo non impegnato a modellare i materiali che usa per le sue opere, che sono soprattutto marmo, gesso, argilla, creta, cera, anche se nelle sue creazioni entrano frammenti di qualsiasi oggetto gli si trovi a portata di mano. C’è, però, un materiale su cui Mattia si sofferma a parlare più a lungo, il cemento, elemento fondamentale nelle sue opere e al quale si sente particolarmente legato. «Sarà un amore ereditato da mio padre che faceva il muratore» spiega, «Quando tornava a casa sentivo su di lui l’odore del cemento fresco e forse inconsciamente lavorandolo è questo che mi ritorna alla mente. Mi emoziona». Ma il cemento per lui racchiude anche la sintesi fra natura e manualità dell’uomo, la sua manualità appunto, che con una delicatezza che descrive “femminile” lo mescola con l’acqua per tornare a donare alla materia la potenza e la forza della natura.

Quando gli chiedo come sia nata questa connessione con una pratica tanto terrena, lui risponde ripercorrendo le ispirazioni e le forze creative che lo affascinano, arrivando a rievocare addirittura epoche preistoriche, cosciente di rifarsi ad una logica “quasi neolitica” del fare arte. Non a caso è questo il riferimento che ritrovo nel testo che accompagna Xoanon, uno dei suoi ultimi lavori: un’installazione presentata in occasione della prima edizione di BaseCamp (progetto di residenze d’artista per talenti emergenti) a Locarno lo scorso agosto. Il nome Xoanon identifica un tipo di idolo costruito dagli artisti-artigiani dell’antica Grecia, capace di mutare forma in quanto dotato di arti mobili. Io ho subito cercato più informazioni su questo affascinante feticcio, così mentre Mattia mi raccontava di come avesse allestito all’interno di una credenza vetrata una collezione di materiali grezzi, oggetti trovati, piccole sculture e frammenti di opere – simulando un importante ritrovamento archeologico di oggetti appartenenti a un culto antico – io apprendevo che queste statuette votive rappresentavano giovani di tale bellezza e sacralità che nella maggior parte dei casi venivano conservate al riparo da occhi mortali e messe brevemente in mostra solo quando fosse stata necessaria una manifestazione divina. Questi idoli giacevano dunque rinchiusi dentro nascondigli preziosi e mi domando se Mattia abbia considerato il valore sovversivo dell’atto di esporre invece i suoi simulacri in vetrina, alla mercé dello sguardo indagatore del visitatore di mostre, facendo cadere questo velo di divieti arcaici, che ovviamente non hanno nessun significato per l’uomo del ventunesimo secolo.

Si sa che la forza dell’interpretazione non conosce limiti, quindi non mi stupisce che una ricerca scultorea sul tema del mito ai miei occhi appaia improvvisamente come un riferimento alla presunta assenza di barriere per lo sguardo pubblico contemporaneo. Penso al tema della bellezza nuda, del corpo, della provocazione e della censura, pensieri che diventano reali quando Mattia mi racconta con un sorriso di un altro dei suoi lavori a Locarno: stavolta una performance, che l’ha visto cimentarsi nell’inusuale impresa di realizzare il calco dei capezzoli di un gran numero di spettatori entusiasti che si sono offerti volontari per l’esperimento. La performance si intitola Call for nipples ed è una proposta che nasce da Zoe Mannella, giovane fotografa che, nel dedicarsi a una narrazione vera e sensuale del corpo femminile, si oppone con forza alla censura del nudo applicata dal web e, in particolare, da Instagram. Zoe documenta con i suoi scatti il momento in cui Mattia allestisce la stanza con i materiali necessari, quello in cui i primi curiosi si fermano a osservarlo chiedendosi cosa succederà, la prima impavida ragazza che senza battere ciglio accetta l’invito a spogliarsi e sottoporsi a questo semplice “rito” e infine la sala affollata di corpi nudi dalla vita in su, che chiacchierano amabilmente mentre aspettano che l’impasto di alginato si asciughi sul petto del visitatore di turno. Di questa “serata assurda”, come la definisce Mattia, che mai si sarebbe immaginato tanto successo, rimane un progetto fotografico sul profilo Instagram di Zoe Mannella, che posa i calchi finali su foto di modelle nude, censurandole provocatoriamente in analogico, ma soprattutto rimane un’installazione permanente nell’ex caserma di Losone, sede del progetto: una distesa di capezzoli di gesso capace di riempire un intero stenditoio militare.
Non è una novità che l’atto creativo sia in grado di legittimare gesti che in qualsiasi altro contesto rischierebbero di venire fraintesi o giudicati, come appunto lo spogliarsi in mezzo a una folla, eppure continua a essere qualcosa che affascina, sia me che Mattia. Lui però mi fa notare quanto sulla riuscita dell’evento abbia influito anche il solo trovarsi a Locarno, dove le molteplici proposte culturali e le influenze internazionali che ruotano attorno al rinomato festival del cinema hanno evidentemente compiuto un grande lavoro sulla mentalità locale. «Non ero mica a Cantù», mi dice scherzando.

È importante rendersi conto di quale grande opportunità rappresenti per un artista giovane come Mattia poter presentare i propri lavori a un pubblico eterogeneo e poterne elaborarne di nuovi e più maturi, evolvendo grazie al confronto con menti provenienti da diversi contesti e ambiti di ricerca. Eppure non sono molti i luoghi che riescono a coinvolgere creativi ancora emergenti, che di fatto incontrano sempre più difficoltà ad affacciarsi su un mondo dell’arte saturo e diffidente. Discutendo di queste dinamiche risulta chiaro il risentimento per un panorama culturale solo apparentemente inclusivo come quello milanese, ad esempio, a cui entrambi siamo piuttosto familiari, ma soprattutto emerge la sfiducia per quello rigido e singhiozzante (per certi versi inesistente) della provincia, dove alla difficoltà di ricezione di determinati linguaggi e tematiche si aggiunge un demoralizzante spreco delle risorse culturali e del ruolo che queste potrebbero avere nella creazione di valore, lavoro e opportunità.

A tal proposito, riconosco che la battuta sul confronto tra la sua città natale e la cittadina svizzera nasconde un riferimento alla sua esperienza concreta di artista in provincia. Mattia mi spiega che sente molto presente su di sé il suo essere brianzolo e non ha mai perso l’interesse nel realizzare progetti nella sua città. Proprio a Cantù, infatti, ha avuto in affitto insieme ad altri artisti della zona uno spazio che usava come studio (per non dire come seconda casa) fino alla sua partenza per Carrara. Per questo locale dall’estetica industriale e decadente, che nel tempo ha assunto il nome di Bionte Atelier, lui mi ha più volte confidato di nutrire diversi sogni come quello di trasformarlo in un centro per l’arte contemporanea in grado di aprire nuovi orizzonti anche per artisti locali: «Ne abbiamo veramente bisogno», mi dice, «Anche se non sembra in Brianza ci sono tantissime persone che si dedicano e interessano all’arte, ma non trovo lo stesso riscontro negli spazi e nell’offerta culturale». Poi pensa un attimo e aggiunge: «C’è qualcuno che ci prova, sicuramente, ma non si riesce ad attirare l’attenzione. Manca il dialogo».

A quel punto penso che sarebbe stato ridondante commentare quanto fossi d’accordo con quello che stava dicendo, allora mi limito a chiedergli: «Te l’immagini proporre Call for nipples a Cantù?» e la parte professionale dell’intervista si conclude con una sonora risata.

di Giulia Guanella
Fotografie per gentile concessione di Mattia Barone, Roberto Gianocca e Zoe Mannella

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Laureatasi in design a Milano e specializzatasi in pratiche curatoriali a Venezia, collabora con diversi spazi e realtà culturali non-profit in Italia e all'estero. Dalla fine del 2018 si unisce a La Beula contribuendo a formarne l’identità ed è ora curatrice del progetto editoriale. Folle accumulatrice di libri e appassionata di illustrazione, nel 2020 sfrutta l'immobilità della Pandemia per tornare sui banchi iscrivendosi alla Magistrale in Antropologia Culturale dell'Università di Torino, che frequenta comodamente dal divano di casa nella piccola Albese con Cassano (provincia di Como), dove vive fin dalla nascita nel 1995. In un'altra vita alchimista, biologa, e pianista.
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